14 Ottobre 2021
Quali sono le lacune che impediscono oggi una piena attuazione delle strategie di utilizzo dei Big Data nel nostro paese?
Credo servano essenzialmente tre cose. La prima è la digitalizzazione dei sistemi informativi sanitari in tutte le Regioni, per ridurre le differenze, anche significative, esistenti. La seconda è l’interoperabilità dei dati, la capacità di farli “parlare” tra di loro, per poterli analizzare in maniera davvero efficace e far sì che forniscano indicazioni utili su prevenzione e cura. Infine, occorre fornire, a partire da questi dati, servizi di telemedicina e di tele-monitoraggio intelligenti, in grado di assistere le persone per gestire la propria salute e di costituire un valore aggiunto non solo per gli operatori sanitari ma per gli stessi cittadini. Credo che oggi questi siano gli ostacoli da superare, e non è un caso che il PNRR preveda risorse volte a rafforzare questi asset fondamentali. L’informatica può aiutare a superare lo scoglio apparente della governance regionale del sistema sanitario, rendendo i dati accessibili a livello nazionale in modo da costruire servizi sempre più efficienti ed efficaci per i medici e per i cittadini.
Esistono sul territorio italiano alcune best practice che, auspicabilmente, potrebbero diventare un modello esportabile a livello nazionale?
L’esperienza del Trentino è significativa: qui abbiamo realizzato TreC, ossia la Cartella Clinica del Cittadino, una piattaforma che permette alle persone di accedere ai propri dati. TreC rende accessibile al cittadino la documentazione sanitaria prodotta dal SSN, come gli esiti delle visite, i referti degli esami diagnostici e così via. Oltre a questo, TreC permette di raccogliere i dati sulla propria salute generati dalle persone stesse, in un Personal Health record (PHR): ma la piattaforma permette anche al medico di “prescrivere un’app”, come diciamo, ossia un sistema che consenta, ad esempio, a chi soffre di una malattia come il diabete o di patologie cardiache o polmonari di gestire nel modo migliore la propria malattia o, più in generale, di promuovere sani stili di vita. Anche altre Regioni hanno adottato applicazioni molto interessanti, il prossimo passaggio sarà quello di rendere questi laboratori territoriali fruibili su tutto il territorio nazionale: per fare sì che questo accada occorre ovviamente un cambiamento organizzativo in tutte le strutture sanitarie, che dovranno avere gli strumenti, anche in termini di personale, in grado di raccogliere, comprendere e analizzare i dati. Le potenzialità offerte dalla digitalizzazione sono enormi, pensiamo al tele-monitoraggio che consentirebbe ad esempio di visitare un malato cronico non in tempi prestabiliti e standard, ma quando ce ne sia realmente bisogno.
In che misura i Big Data potranno impattare, anche economicamente, riducendo costi e sprechi, sui sistemi sanitari sia pubblici che privati?
Direi in misura altissima, se si pensa che l’80% della spesa sanitaria è dedicata alle malattie croniche. Torno all’esempio che facevo precedentemente: attraverso il tele-monitoraggio un paziente, poniamo, cardiopatico, potrebbe essere costantemente sorvegliato, e visitato quando se ne ponga la reale esigenza, in maniera fortemente personalizzata, fornendo dunque un servizio sempre migliore e adeguato, modellato direi, sui bisogni del singolo. Si tratta di un vero e proprio cambiamento di paradigma, uno degli innumerevoli e sostanziali vantaggi che ci provengono dalla digitalizzazione.
La gestione dei dati pone un enorme problema di privacy: quali sono gli strumenti, anche normativi, messi in campo per rispettare la GDPR compliance?
Certamente quello della privacy è un tema fondamentale e un diritto sacrosanto dell’individuo. Allo stesso modo però i dati sono in grado di fornirci tantissime informazioni sulle malattie – pensiamo al Covid – e rappresentano dunque un’enorme opportunità per conoscerle e fronteggiarle. Credo che l’approccio vada, per così dire, ribaltato, per sfruttare appieno le potenzialità della sanità digitale: la privacy non va vista come vincolo, ma come strumento che consenta ai cittadini di essere informati e partecipi, in modo da comprendere che i dati forniti attraverso un consenso veramente informato possono avere un’enorme valenza per la ricerca medica. Una sorta di “citizen science”, insomma, per cui il cittadino e la ricerca collaborino in modo attivo e responsabile: esistono strumenti come la “privacy by design” o, più in generale, il cosidetto “legal design”, dove giuristi, medici, informatici lavorano assieme perché il giusto diritto alla privacy non sia un ostacolo ma una opportunità, ad esempio informando costantemente le persone e permettendo loro di fare costantemente una scelta consapevole. Credo che occorra costruire una sorta di “patto con il cittadino”, coinvolgendolo attivamente nella ricerca di nuove cure, attraverso modalità che non negano la privacy ma consentono di raccogliere informazioni preziose per il futuro della nostra salute, attraverso l’analisi di grandi quantità di dati.